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Grata per aver dato un contributo con questo mio capitolo al libro:

 ” Approccio al trauma in adolescenza.
Dialogo tra modelli teorico-clinici ed esperienza pilota.”

Un progetto che nasce da una sinergica collaborazione con i miei preziosi colleghi del servizio pubblico.

 

Condivido una piccola parte di questo grande lavoro.

 “Rispondere al problema attraverso la clinica. Intervento di stabilizzazione e psico-educazione con un gruppo di adolescenti; esperienza pilota”

Premessa 

Per “chi sta ancora cercando la storia che ha dentro”…

Leggere questa frase fa pensare a come lo sviluppo della vita sia frutto di una danza tra l’intrapsichico e l’interpersonale. Pertanto si ritiene utile aprire uno spazio di riflessione su come solitamente ciò che si sente, guida più o meno consapevolmente molte scelte, e permetta di determinare percorsi e incontri diversi.

Gli adolescenti del nostro tempo, pur nella naturalità di una fase di vita in cui si chiede loro, implicitamente, di portare a compimento specifici compiti evolutivi, sono chiamati ad affrontare sfide più grandi, spesso fuori dalla loro portata se si pensa, per fare un esempio, alle richieste che ha comportato l’avvento della pandemia da Covid-19. Tali condizioni hanno sorpreso il naturale processo di sviluppo, favorendo uno smarrimento psichico a cui in pochi sono risultati preparati, inoltre in molti casi, tali sfide si sono innestate su terreni psicologici già vulnerabili. Quello che si è osservato in molti di loro per anestetizzarsi da tutto il dolore provato, è una strategia di protezione che fa sembrare che abbiano “smesso di sentire”. Di fronte a tanto smarrimento emerge il terrore che quei percorsi che si dovrebbero ancora esplicitare, in realtà rischino di ripetere e non riparare, un passato traumatico.

Il triangolo di Karpman (1968) “vittima, carnefice e salvatore” sembra diventare il solo copione su cui si possa iscrivere quella storia, in cui ciò che si possa scegliere in realtà sia fortemente limitato e tracciato da qualcosa già scritto dentro, in modo indelebile.

Questi adolescenti sono stati bambini a cui è stata tolta la possibilità di dare voce al loro dolore e che rischiano di diventare adulti di nuovo vittima di situazioni drammatiche, e/o carnefici e restituire la violenza subita, e/o passare la vita in uno stato di compiacenza salvifica “di chi sta male”: insomma in ciascun caso lo spazio per il piacere, come godimento che dilata il sé, portando ad evolvere in senso maturo, è intaccato, per non dire non permesso. Non possono parlare o possono dire solo sottovoce perché è stata tolto loro la possibilità di proteggersi ed essere così tutelati ed accuditi, come avrebbero avuto bisogno.

Questo interroga su cosa sia utile fare per offrire a questi ragazzi una possibilità di scelta, da ciò nasce l’esigenza di creare una diversa consapevolezza e poter curare i traumi vissuti, elaborando quel senso di sopraffazione che prova chi è vittima di situazioni familiari multiproblematiche.

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Queste considerazioni spiegano la necessità di fornire una risposta pratica, immediata e concreta ai bisogni sottesi e non detti degli adolescenti, portatori di sofferenze, che quotidianamente è possibile incontrare nelle stanze degli ambulatori clinici; ed è così che nasce l’idea di offrire loro uno spazio di esplorazione e di confronto attraverso la strutturazione di un momento terapeutico di gruppo e per il gruppo.

Posta questa prima introduzione, nelle prossime pagine sarà possibile illustrare la cornice teorica all’interno della quale si impianta questo progetto e successivamente entrare più nel merito di questa esperienza che per la natura esplorativa, nonché innovativa con cui si propone, si deve intendere come una esperienza pilota, attualmente ancora in fase di prosecuzione e sperimentazione, che ha certamente prodotto delle evidenze ma che devono essere ancor più sperimentate, analizzare e rielaborate, nel corso del tempo.

Così nasce questa idea. Per dare uno spazio di parola a quei “Ragazzi Sottovoce” che nel contempo dentro hanno un grido, come il punto più estremo di una domanda: uno strappo, una lesione, quella del bambino inerme innanzitutto.

Questa riflessione è dedicata a loro, che lottano tra una postura che blocca la voce e un grido intenso dentro che spesso esce solo attraverso il sintomo psicopatologico.

Stando con loro nelle loro fatiche, si è sentita l’esigenza di spostare lo sguardo sulla resilienza e tener salda la fiducia che dalla sofferenza possa gradualmente nascere una gioia diversa, in cui poter abbandonare quella sottesa dipendenza dal dolore della propria storia. Come tutti i processi trasformativi per fare questo c’è da riconoscerlo e attraversarlo questo tunnel, smettendo di negarlo. Così per andare “in alto” bisogna avere il coraggio di scendere “in basso”. Scegliamo di farlo insieme perché questo permette di essere meno soli.

Per dire “A chi sta ancora cercando la storia che ha dentro”, che è possibile non solo sopravvivere ai traumi, ma anche curarli e scrivere così una storia davvero nuova!

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